Lisa Wade

06.12.2011 12:03

Perché hai scelto la carriera artistica?

Non penso che una persona scelga di fare l'artista, viene spontaneamente li da sé. Mi sento mancare l'aria se non ho la possibilità di esprimermi in qualche maniera. Non mi sento completa come persona se non lo faccio. La carriera da artista è una cosa molto difficoltosa, non penso che nessuna l'avrebbe scelta se non è masochista. E' un po’ come decidere di fare il prete, si sente la "chiamata".

Qual'e stata la tua formazione?

Ho studiato Belle Arti in America nella periferia di Chicago a Wheaton College, e poi ho fatto il mio Masters nella pittura (MFA) tra Italia e l'America con una programma speciale dell’American University. Ho trascorso i due anni del Masters tra Roma, Perugia, e Washington D.C. 

Hai dei modelli di riferimento artistico e culturale?

Ammiro tanti artisti anche se sono uno diversissimo dall'altro. Adoro Joseph Cornell, che arriva a fare l’artista senza nessuna formazione e che ha una sensibilità unica verso i suoi oggetti, è regista proprio del palcoscenico che crea nelle sue scatole. Poi c’è Rothko che per me è il massimo dell’espressività spirituale di oggi giorno. Rimango ammaliata completamente davanti ai suoi quadri. Può sembrare strano, ma quando vado a vedere una mostra di Rothko, non posso portare nulla con me in galleria. Nessun cappotto, né borsa, nessun quaderno o mattita, niente. Non riesco ad "entrare" in una sua mostra se mi sento ostacolata o tengo anche la cosa più piccola tra le mani. 

Culturalmente mi sono formata in America, con i nostri simboli e credenze culturali. Non parlo dell'arte, ma della cultura stessa. Gioco molto con la percezione degli elementi visuali che fanno parte del vocabolario simbolico, quasi subliminali. Ricordiamo che prima quando la maggioranza delle persone erano analfabete, esistevano sopratutto delle icone visuali che venivano lette come le parole, il "signifier" di un concetto o di un oggetto. Non posso negare che sono profondamente informata sulla ricchissima storia dell'arte italiana, sopratutto per quello che riguarda la lettura delle metafore presenti in dipinti religiosi dal medioevo in poi. Io vorrei dare più letture delle mie opere, proprio come nell'arte del passato. 

Cosa ti ha spinto a lavorare in Italia?

Ho iniziato a lavorare in Italia quasi come un continuo della mia preparazione e grazie al fatto che avevo studiato nel vostro paese. E’ stata una scelta di vita che mi ha permesso di rimanere qui.

Cosa pensi della situazione artistica in Italia e a livello internazionale? 

Non mi posso lamentare della situazione artistica in Italia visto che è qui che ho cominciato la mia strada ed è il vostro paese che mi sostiene. L'Italia ha gli stessi problemi nell'arte di tante altre nazioni: per paura o perché è permesso e comodo, gli stessi artisti vengano proposti in continuazione, senza lasciare l'ingresso ad altri artisti altrettanto interessanti e di talento. Vedo però, che la stragrande maggioranza degli artisti italiani non sono conosciuti sulla scena internazionale. E, per essere sincera, mi fa preoccupare un po’. Non vorrei dedicare il mio tempo in un ambiente che non potrà avere delle grandi potenzialità. Non vorrei lavorare su parametri già limitati. Ecco perché sto cercando di lavorare anche a Berlino, per estendermi al di là della realtà italiana.

Ci racconti come nasce e si sviluppa il tuo lavoro, concettualmente e manualmente?

Spesso un progetto nasce da una notizia che mi turba. Lavoro molto ascoltando il telegiornale re-azionista americano, mettendo in ridicolo le paure che cercano di diffondere. In questo senso, i miei lavori sono delle reazioni, delle contrapposizioni. Una mossa successiva sulla scacchiera con l'intenzione di portare lo spettatore a guardare altro e non il suo immediato, sfidando percezioni facili o proposte che provengono sempre dalle stesse fonti. Poi cerco i materiali che possano dare voce al mio concetto. Mi piace utilizzare materiali inerenti a significati molto precisi, come il catrame e le piume, che nella cultura americana sono sinonimo di un traditore dello Stato. Così, facendo la bandiera, "Tar and Feather," i materiali stessi lavorano con me e il prodotto finale è il risultato della nostra “conversazione”. 

Riesci a vivere del tuo lavoro?

Sto tentando con tutta la mia forza di riuscire a vivere con questo lavoro, ma oggigiorno l'artista deve fare tutti i mestieri che hanno a che fare con l'arte. Deve produrre in anzitutto, portare avanti il suo curriculum e contatti, proporre mostre e partecipare a concorsi, instaurare tutti i rapporti necessari con curatori, collezionisti, galleristi, e anche le public relations, deve perfino fare da sé il trasporto e il montaggio quando partecipa a tante mostre. Tutto ciò nella speranza di andare avanti. Mi fa cadere le braccia tante volte. Io volevo solo creare ed esprimere le miei idee su una piattaforma adatta. Ma fare l'artista non è un lavoro, è una stile di vita che richiede tutte le forze che una persona possiede.

Qual'e il tuo rapporto con il pubblico che visita le tue mostre? E' cambiato nel corso degli anni?

Questa è una domanda che è stata proposta spesso mentre studiavo all’università. Qual è il tuo "audience?" Per chi stai creando? Non si può rispondere, 'sto creando per me stesso' o nemmeno che 'sto creando per tutti.' Io vorrei creare opere che non siano immediate, che facciano riflettere, ovviamente per quelli che sono disposti a impiegare il tempo necessario per dare loro considerazione. Io vorrei sfidare lo spettatore. Nessuno vuole mangiare un piatto già digerito, vogliono masticare, pensare ed arrivare alle loro conclusioni. E’questo che vorrei offrire allo spettatore. Non penso che questa mia aspettativa cambierà mai nel futuro.